LEADERBOARD
Editoriali | Ugo Leone | 26 Febbraio 2018
Italia fragile: non basta rattoppare
Italia fragile: non basta rattoppare

È un Paese fragile  l’Italia e, se ce lo dovessimo scordare, ce lo ricordano ogni anno incendi, frane, alluvioni, terremoti e via disastrando. Questa fragilità si deve certamente alla naturale predisposizione della geologicamente giovane Italia, ma i disastri che ne derivano, le vittime e le distruzioni sono imputabili non meno alla umana ignoranza.
Una ignoranza che consente ancora oggi di alimentare quella che amo definire “la politica del rattoppo” piuttosto che quella della prevenzione.
Voglio dire che, abbastanza regolarmente, dopo un evento calamitoso si interviene a metter pezze e a turare falle, a sistemare al meglio i sopravvissuti sempre a disastro avvenuto e senza rimuovere le cause del danno.
Di conseguenza quando si verifica un disastro come quelli che hanno devastato aree del Centro Italia, i primi, a volte immediati, interventi provano a salvare quante più vite umane possibile, a sistemare al meglio i sopravvissuti in strutture di emergenza, tanto che si fa ricorso anche a professionalità quali lo storico dell’emergenza e lo psicologo dell’emergenza.
Ma spesso quel disastro si sarebbe potuto prevedere, se non nei tempi, almeno nei luoghi e nelle modalità  di manifestazione se l’ignoranza del Paese che governano non fosse una caratteristica che gli uomini di governo si tramandano dal Risorgimento in poi. Lo ha detto Italo Calvino e l’ignoranza alla quale si riferisce è quella geografica tanto da indurlo ad auspicare lo studio obbligatorio della Geografia per ministri e sottosegretari.
È anche vero che parlare di ignoranza  in qualche modo limita la gravità delle responsabilità, nel senso che consente di giudicarle colpose anziché dolose. Invece non poche volte c’è anche il dolo e il desiderio di approfittare della situazione.
Lo dico pensando alle risate al telefono di quegli sciagurati delinquenti che due anni fa, come già in occasione del terremoto dell’Aquila, mettevano in conto i guadagni che ne potevano ricavare partecipando alla ricostruzione. E sì perché, non mi stancherò mai di sottolinearlo, i terremoti, come altri eventi disastrosi, fanno anche aumentare il PIL. Un Prodotto Interno Lordo che calcola l’accumulo di ricchezza prodotto in seguito alle opere di ricostruzione sempre al lordo delle vittime e del dolore morale oltre che fisico provocato dai disastri.
Lo aveva notato anche Voltaire nel suo Poema sulla distruzione di Lisbona  (il tremendo terremoto del 1° novembre 1755). Nella prefazione di questa opera breve, ma ricca di dolenti riflessioni, scriveva, tra l’altro: «Tutto è bene, le eredità dei morti aumenteranno le loro fortune, i muratori guadagneranno soldi con la ricostruzione delle case, gli animali si nutriranno dei cadaveri sepolti tra le macerie: questo è l’effetto necessario di cause necessarie, il vostro male individuale non conta nulla, anzi contribuite al bene generale».
Questo scriveva profeticamente Voltaire più di 250 anni fa. E, in modo ancor più convincente, gli fece eco Jean-Jacques Rousseau nella lettera a Monsieur De Voltaire in risposta e ringraziamento al poemetto che Voltaire gli aveva mandato insieme  con un altro scritto Sur la loi naturelle.
Una risposta che ancora oggi, nell’Italia dei terremoti, delle frane, delle valanghe, delle alluvioni e delle possibili eruzioni vulcaniche è una splendida lezione per chi a qualunque livello è chiamato ad amministrare la cosa pubblica e, in essa, la sicurezza dei cittadini.
«Sono sicuro – scrive Rousseau – che anche voi sarete d’accordo sul fatto che non è stata certo la natura ad ammassare insieme in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo meno concentrato e in edifici meno alti e pesanti, il disastro sarebbe stato assai minore o forse non sarebbe accaduto nulla».
E, tanto per restare sotto casa, non è stata certo la natura ad ammassare case e gente ai piedi del Vesuvio. Ragion per cui il rischio Vesuvio è dovuto più alla vulnerabilità dell’area che alla probabilità di un’eruzione esplosiva.
Il guaio è che pur essendo l’ultima eruzione di 74 anni fa (1944) se ne è progressivamente persa la memoria. Il che induce dolorosamente a constatare ancora una volta che la storia, magistra vitae, non insegna nulla. Altrimenti il ripetersi di eventi in periodi quasi “prestabiliti” dalla natura porterebbe a classificare quei fenomeni tra le “calamità” prevedibili. E, in quanto tali, in grado di poter essere preventivamente affrontate per limitare sino ad annullare il rischio di danni e, soprattutto, vittime. Non è così. Non è stato così come attesta la storia dei disastri che annualmente sotto forma di alluvioni, frane e terremoti in modo particolare interessano vaste aree del Paese (la lunga dorsale appenninica soprattutto) e la tiritera delle catastrofi annunciate e che si potevano evitare.
Anche gli amministratori delle aree sismiche d’Italia e di quelle vulcaniche della Campania dovrebbero ben saperlo: pure senza leggere Voltaire e Rousseau. Ma non lo sanno e, colpevolmente ignorandolo, consentono a qualche sciacallo di rallegrarsi per i futuri guadagni.

Tags
#frana   
Lascia un commento

Nome

Email

Commento

2 + 2