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Editoriali | Armando Vittoria | 13 Marzo 2017
Tempo e lavoro
sono doni sociali
Tempo e lavoro sono doni sociali

Un articolo apparso il 28 febbraio sul New York Times, e riportato da alcuni quotidiani online italiani racconta l’incredibile storia, almeno per l’eurozona di questi tempi, dell'imprenditore Peter Enevoldsen, proprietario di un'azienda meccanica, la Sjorring Maskinfabrik, il quale riuscito da poco ad ottenere un commessa milionaria ha dichiarato di essere nella impossibilità o quasi di accettarla, per la difficoltà a trovare persone da assumere e impiegare. Per l’Italia ed altri paesi europei, dove la disoccupazione non è a circa il 4 per cento come in Danimarca, una notizia del genere sembra a dir poco scioccante. E in effetti lo è. Schiere di economisti, di scuole e approcci differenti, spiegherebbero il caso invocando fattori tra loro assai diversi. Non essendo un economista di professione, mi guardo bene dal dire alcunché nel merito. E tuttavia, per minima competenza, potrei certamente dire che gioca un ruolo anche un fattore ‘storico’, più complesso articolato e non meno controverso. Non si ha il 4% di disoccupazione – e specularmente oltre il 40% di quella giovanile, come nel Mezzogiorno d’Italia – solo per fattori economici o di breve-medio periodo. Sarà banale, ma non lo si considera mai abbastanza quando si cerca di affrontare la questione della disoccupazione strutturale.
D’altra parte, dopo il Novecento, l’espulsione del lavoro come categoria e valore dal modello sociale europeo è stata soprattutto una perdita culturale e "politica", prima che economica. Il compianto storico inglese Tony Judt, in uno dei suoi ultimi e più riusciti volumi, scrisse che il Mondo dopo il Novecento era guasto soprattutto perché noi europei, più inclusivi e "sociali" per storia e vocazione, avevamo smesso di cercare soluzioni per il benessere sociale, soprattutto per dare un lavoro alle persone. Non casualmente, dagli anni ’90 del secolo scorso in poi le poche soluzioni indicate nell’Europa continentale per affrontare gli effetti sociali della crisi sono state, essenzialmente, rivolte a trasferire reddito più che a creare lavoro. E le persone certamente hanno bisogno di reddito per vivere dignitosamente, ma hanno forse anche bisogno di un’occupazione, di lavoro per trovare una dignità sociale e di cittadinanza. Il lavoro, nel suo senso più alto, produce dignità per chi lo esercita e valore per la collettività: è anch’esso un dono alla collettività, non solo economico.
L’unica proposta che io ricordi, forse proveniente dall’allora premier Francese Jospin, fu l’idea della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. A parte i contorni un po’ agé e la scarsa efficacia con cui fu attuata allora, essa muoveva dall’ammissione che, anche solo in piccola parte, il lavoro è una variabile indipendente come si diceva una volta. Questa stessa proposta pare sia è stata rievocata da Hamon, l’attuale candidato del Partito Socialista francese alle prossime Presidenziali, aggiungendo che un limite di 32 ore settimanali produrrebbe occupazione e lascerebbe lo spazio all’altra grande sfida proposta dal candidato: il tempo libero delle persone, come tempo da dedicare alla comunità. Hamon vorrebbe istituire addirittura un Ministero per programmarne gli effetti sociali.
Che sia o meno una risposta efficace al grave problema che attraversa la società europea sarà il tempo a dirlo. E tuttavia, oggi è forse giunto il momento di misurarsi con una impostazione della crescita e dello sviluppo, del benessere che è termine più ‘civile’, nella quale cominciare ad includere l’idea che sia il lavoro sia il tempo dedicato alla comunità producono valore sociale, collettivo. Non è questa, in fondo, la spinta del Terzo settore? Si pensi ad esperienze come la Banca del Tempo, con tutti i suoi limiti: siamo davvero certi, come si diceva una volta, che solo capitale e lavoro producano benessere sociale? Donare partecipazione collettiva, forse, ci aiuterebbe a essere più floridi e a conferire spessore allo stare insieme, e a ‘restare umani’, come spesso si dice.

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